Buone notizie: domani moriremo

Buone notizie: domani moriremo

Certe occasioni ci vengono incontro indossando le vesti della casualità. 

Altre ci raggiungono attraverso le circostanze più inaspettate, quelle che penseremmo essere le più improbabili. 

Come ho avuto modo di imparare una volta da un'amica e collega traduttrice, dobbiamo saper trasformare le circostanze in opportunità, anche quando sembra una sfida difficile.

E quale sfida potrebbe essere più ardua del dare voce (e risposta) ai sentimenti che si scatenano con la perdita di una persona cara quando quei sentimenti sono diventati parte del proprio quotidiano?

L'articolo del Professor J.Todd Billings pubblicato a settembre in inglese sulla rivista Christianity Today raccoglie questa sfida e propone una lettura peculiare del dolore che si accompagna all'esperienza della malattia e alla prospettiva della morte.

Il tutto, attraverso il filtro di una genuina analisi delle Scritture che si compie lasciando emergere insieme la voce del credente, del teologo e del paziente oncologico che J.Todd Billings accoglie in sé.

Sono reduce da una perdita immensa e lacerante, perciò posso dire che questo articolo mi è caduto tra le mani in un momento che difficilmente sarebbe potuto essere più giusto per la mia vita. 

È un onore averlo tradotto in italiano e poterlo condividere in questo spazio, sperando possa essere di beneficio per quanti vivono una situazione di sofferenza o perdita analoga. 

Angelica Perrini

Buone notizie: domani moriremo

Perché soffermarci sulla nostra mortalità può farci del bene

J. TODD BILLINGS/21 SETTEMBRE 2020

Ero convinto che Dio mi dovesse una lunga vita, per seguire una vocazione e crescere una famiglia al pieno delle forze, per vivere abbastanza a lungo da diventare nonno. Poi, a 39 anni, mi è stato diagnosticato un cancro incurabile e la trama che avevo immaginato per la mia vita è stata interrotta. Adesso, da malato oncologico, le mie aspettative sono cambiate. Probabilmente il cancro mi toglierà decenni di vita. Ogni giorno provo dolore e stanchezza che mi prosciugano le forze. Se da una parte ciò che prima mi aspettavo da Dio potrebbe sembrare plausibile, mi sono reso conto di come, involontariamente, io avessi abbracciato una certa forma del cosiddetto vangelo della prosperità. Credevo che Dio mi dovesse una lunga vita.

Questa è una convinzione diffusa. Secondo un recente studio condotto da Pew, il 56% di coloro che credono in Dio negli Stati Uniti ritiene che “Dio concederà buona salute e sollievo dalla malattia ai credenti che hanno abbastanza fede”. In altre parti del mondo, la percentuale di cristiani che la vede alla stessa maniera è persino maggiore.

Per certi aspetti, questa visione riprende gli insegnamenti dell'Antico Testamento secondo i quali raccogliamo quello che seminiamo. “Il male perseguita i peccatori, ma il giusto è ricompensato con il bene” è scritto in Proverbi 13,21. Il vangelo della prosperità prende alcune perle di saggezza come questa e le combina con il ministero di guarigione di Gesù arrivando a spiegare la malattia con un evidente assioma: dato che Dio ci ama, non ci vuole malati. Quindi, se non siamo in buona salute, è perché abbiamo peccato o, quantomeno, perché manchiamo di fede. In un modo o nell'altro, la colpa è della persona malata. Se da una parte diversi evangelici respingono questa forma “stretta” di vangelo della prosperità, molti ne accettano una versione più soft, un suo corollario: se cerco di obbedire a Dio e vivere per fede, posso aspettarmi una lunga vita piena di prosperità materiale e relativo benessere.

Di recente, un'amica mi ha raccontato della sua esperienza come consulente per gli adolescenti iscritti a un campo estivo cristiano. Durante una delle giornate di permanenza, i ragazzi hanno partecipato a un'attività che doveva aiutarli a sviluppare empatia verso le persone con qualche forma di disabilità fisica. Alcuni di essi erano bendati, altri avevano le orecchie coperte, altri ancora erano seduti su una sedia a rotelle.

A un certo punto della giornata, una ragazza si è tolta la benda dicendo “Se diventassi cieca, Dio mi guarirebbe” e si è rifiutata di rimetterla, perché aveva fede in Gesù e stava cercando di obbedire a Dio. Come in una prosaica transazione commerciale, era sicura che se avesse fatto la sua parte, poteva avere la certezza che Dio avrebbe fatto la Sua: darle una vita che, secondo lei, sarebbe stata prospera. Se fosse diventata cieca, Dio avrebbe trovato un rimedio.

Il problema di questo approccio non è tanto la convinzione che Dio possa guarire e che ci ama. Il punto è che il Dio delle Scritture non promette mai il genere di prosperità che questa ragazza si aspettava con tanta certezza. Non c’è dubbio che quando la guarigione arriva, se pure attraverso il mezzo delle cure mediche, è sempre un bellissimo dono di Dio. Quando proviamo la sensazione di trovarci in una “fossa” oscura, come il salmista (Salmi 30,1-3), non solo possiamo, ma dovremmo elevare il nostro lamento e invocare la liberazione, anche nel dolore e nella malattia. È giusto chiedere a Dio la guarigione, esattamente come Gli chiediamo il nostro pane quotidiano nella preghiera del Padre nostro. Anche la guarigione, tuttavia, analogamente al pane quotidiano, è effimera, passeggera. Che la nostra esistenza duri solo pochi anni o diversi decenni, l'Ecclesiaste ci ricorda che, guardando in una prospettiva più ampia, l'uomo esce “nudo dal grembo di sua madre... se ne va com’era venuto” (Ecclesiaste 5,15).

In ultima istanza, la morte ci colpirà tutti. Sarà una ferita che nessuna medicina potrà guarire. Benché il libro dei Proverbi non sbagli nel presentarci la visione secondo cui raccogliamo quello che seminiamo, si tratta semplicemente di buon senso. Non è una legge divina su come funziona sempre l'universo. Giobbe era “integro e retto”, eppure su di lui si abbatté una vera calamità: perse figli, servi, ricchezze e salute (Giobbe 1,1.13-19; 2,7-8). L'apostolo Paolo servì Cristo e la Chiesa per fede con sacrificio, ma nonostante ciò non fu liberato dalla sua “spina nella carne” (2 Corinzi 12,7-10). Nessuno potrà mai sottrarsi alla mortalità e alle perdite che essa comporta. Anche se nella nostra vita di ogni giorno tendiamo a respingere queste fondamentali realtà dell'umana natura, mi sono reso conto di qualcosa di sorprendente: per noi cristiani, accogliere quei segnali quotidiani che, come dei promemoria, ci rammentano i nostri limiti mortali potrebbe essere una fonte di refrigerio per l'anima assetata.

Una buona notizia per cui morire

La nostra esistenza è “fragile”, fugace, e il tempo della nostra vita ha la “lunghezza di qualche palmo” in confronto al Dio eterno, ci ricorda il salmo 39. Fin quando il Signore della creazione non ritornerà per fare nuove tutte le cose, ci uniamo al salmista nel pregare:

O SIGNORE, fammi conoscere la mia fine e quale sia la misura dei miei giorni. Fa' ch'io sappia quanto sono fragile. Ecco, tu hai ridotto la mia esistenza alla lunghezza di qualche palmo, la mia durata è come nulla davanti a te (vv. 4-5).

Questa preghiera contrasta con gli assunti culturali comunemente condivisi oggi. La tendenza a costruire storie che raccontano di noi su Facebook e Instagram, per esempio, rientra in una più ampia liturgia culturale, ossia in una serie di pratiche che modellano i nostri desideri. Questa liturgia insinua silenziosamente in molti di noi la convinzione che siamo al centro dell'universo e che la nostra storia, se non addirittura il numero stesso degli anni riservatici sulla terra, non avrà mai fine. La crisi connessa al COVID-19 ha messo chiaramente in luce che convinzioni del genere sono soltanto un'illusione. Le notizie dei camion frigoriferi resi necessari per accogliere le salme delle vittime della pandemia in città come New York e Detroit sono una testimonianza lampante che nemmeno i Paesi ad alto indice di sviluppo sono esenti dall’imprevedibilità della morte. Inoltre, come hanno rivelato le manifestazioni di protesta contro l'uccisione di persone di colore disarmate, convinzioni simili a quella secondo cui “la mia storia non finirà mai” sono proprie di chi è culturalmente privilegiato. La chiesa nera e altre comunità emarginate sono dolorosamente consapevoli della fugacità della vita umana. “M'appresso, m'appresso, m'appresso a Gesù, poiché non starò a lungo quaggiù”, recita il celebre spiritual Steal Away to Jesus.

Nelle generazioni precedenti, la nostra mortalità non era tanto facile da eludere. Al di là del fatto che le malattie trasmissibili e mortali rappresentavano una minaccia sempre presente, la cultura della morte era molto più sentita in America. I funerali fungevano da monito costante della mortalità umana in quanto vi prendeva parte la chiesa intera, sia gli adulti che i bambini. In tali occasioni, il messaggio centrale che veniva generalmente trasmesso rendeva perfettamente chiaro che non apparteniamo a noi stessi ma apparteniamo invece a Cristo, sia nella vita che nella morte. Al contrario, oggi è più consueto tenere commemorazioni private che vengono adattate alla specifica storia di vita del defunto, a cui prendono parte soltanto familiari e amici. Insomma, è possibile che la morte di qualcuno ci tocchi, ma soltanto se è significativa per la nostra, di storia. È quest'ultima che conta di più. La morte è qualcosa che capita agli altri.

Il salmo 39 stronca illusioni di questo genere, e tuttavia abbonda di speranza. Benché siamo creature temporali, possiamo comunque trovare vera prosperità investendo i nostri affetti più profondi in Colui che è eterno, il Signore. Peter Craigie, commentatore dei Salmi particolarmente acuto, osserva come il valore della vita debba essere compreso alla luce della sua finitezza. “La vita è estremamente breve”, scriveva. “Se deve esserne trovato il significato, esso va cercato nel proposito di Dio, donatore di ogni forma di vita”. In effetti, riconoscere la “transitorietà” delle nostre vite è “un punto di partenza per il pellegrino che voglia assicurarsi la salute mentale in un mondo altrimenti folle”. Craigie scrisse queste parole nel 1983, nel primo di tre volumi previsti sui Salmi all'interno di una prestigiosa collana di commentari accademici. Due anni dopo, morì in un incidente stradale, lasciando la collana incompiuta. Aveva 47 anni.

La vita di Craigie ebbe fine in anticipo rispetto a quanto lui e i suoi cari si aspettassero. Cessò prima che potesse portare a termine i suoi buoni e meritevoli obiettivi terreni. Nondimeno, nella sua vita passeggera, Craigie ha reso testimonianza dello strabiliante orizzonte dell'eternità. Ha reso testimonianza di come accogliere i nostri limiti mortali vada di pari passo con l'offrire i nostri corpi mortali al Signore della vita. In questo mondo non siamo eroi e non possiamo fare molto. Possiamo, però, amare generosamente e possiamo rendere testimonianza di Colui che è principio e fine della vita stessa: il Signore dell'eternità, l'Alfa e l'Omega, il Salvatore crocifisso e risorto che ha realizzato e porterà a compimento ciò che noi da soli non potremmo mai.

L'antidoto al rifiuto della morte

Non dovremmo fare della fede uno scudo con cui schermarci dalla realtà della nostra mortalità e dalla riflessione che tale realtà induce. Di fatto, la tendenza a rifiutare la morte, particolarmente comune nelle forme più soft del vangelo della prosperità, non è nemmeno necessaria, perché riponiamo in Dio la speranza che un giorno risusciteremo dai morti. In fondo, una fede che non è capace di far fronte alla limitatezza della nostra natura mortale non vale a nulla. L'apostolo Paolo lo riconosce apertamente: “Se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede”, afferma nel suo celebre capitolo sulla risurrezione del Signore. “Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini” (1 Corinzi 15,14.19). Riconoscere ogni giorno la nostra impotenza di fronte alla morte può essere un modo per affidarci completamente alle mani del Signore risorto anziché dipendere dai nostri tentativi di fabbricarci una vita terrena “prospera”.

Paradossalmente, ammettere in questa maniera la nostra finitezza davanti alla morte può renderci liberi dal giogo della paura che essa incute. In una scuola di pensiero ispirata dal libro Il rifiuto della morte, scritto da Ernest Becker e vincitore di un premio Pulitzer, i sociologi hanno documentato come le varie civiltà tendano a idolatrare, a mitizzare le figure eroiche o finanche le sorti di una nazione in quanto ciò rappresenta un modo per negare i propri limiti mortali. Quando rifiutiamo la nostra mortalità, ci mettiamo sulla difensiva, riponendo fiducia soltanto nel nostro clan politico o nel gruppo etnico e culturale a cui apparteniamo. Vivere nella speranza della risurrezione, invece, rende inutile la necessità di venerare leader fallibili o imbellettare ad arte cause ideologiche immorali. Ci mette in grado di riconoscere apertamente che non possiamo sconfiggere la morte. Ci fa vivere nella fiducia che nell'ultimo giorno, “quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria» (1 Corinzi 15,54). Quel giorno non è ancora arrivato; lo attendiamo ardentemente nell'era a venire, quando il regno di Cristo si manifesterà nella sua pienezza. Bramare tale giorno e sperare nei propositi di Dio piuttosto che nei nostri fa una grande differenza nel modo in cui viviamo ogni giorno nel presente.

Alla luce della speranza nella risurrezione, Paolo credeva che “anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo” il decadimento del nostro corpo non avrà l'ultima parola (2 Corinzi 4,16). Inoltre, i nostri patimenti fisici rientrano nella realtà che ci fa da pilastro: la nostra unione con il Signore crocifisso e risorto. “Noi che viviamo siamo sempre esposti alla morte per amore di Gesù, affinché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale” (v. 11). Quali che siano le nostre capacità visive o motorie, che ci sia dato di vivere per 5, 40 o 90 anni, il nostro corpo appartiene al Signore e il processo di disfacimento del nostro essere esteriore può costituire una testimonianza dell'umile amore del nostro Salvatore. Ed è straordinario, ma l'opera dello Spirito si compie nel mondo servendosi anche di corpi fallaci. Poiché siamo testimoni di Cristo, il deterioramento dei nostri corpi indica chiaramente che “questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi” (v. 7, Bibbia della Gioia). La nostra speranza, pertanto, non è ancorata alla liberazione dal decadimento, ma piuttosto all'unione con il Cristo crocifisso e risorto, unione che sboccerà pienamente nella risurrezione prossima a venire, rendendoci partecipi di una gloria eterna che sorpassa di gran lunga “la nostra momentanea, leggera afflizione” (v. 17).

I promemoria della mortalità: un dono

Secondo Martin Lutero, anche quando il nostro corpo si sente pieno di vitalità e la morte sembra appartenere a una terra lontana, dovremmo stabilire con essa una certa confidenza, prendervi familiarità. “Nella vita è bene esercitarsi col pensiero della morte e avvicinarlo a noi mentre è ancora lontana e non incalza”, scriveva in un sermone del 1518. Perché Lutero dà simili consigli? Non è qualche malsana inclinazione che lo spinge a farlo, ma invece la stessa ragione per cui il salmista attribuisce alla vita “la lunghezza di qualche palmo” davanti a Dio: la morte intacca la nostra hybris, come dicevano i Greci, la nostra percezione del mondo come teatro di un dramma i cui protagonisti siamo noi. Tutto ciò che ci ricorda della nostra morte può ricondurre il nostro sguardo al Dio della vita - quel Dio che rivestì di carne delle ossa secche - quale nostra unica speranza, tanto adesso che nell'era a venire. Come Lutero ci rammenta, tutti dovremo lasciare questa terra. Pertanto, “occorre volgersi a Dio soltanto, dove è diretta e dove ci mena anche la via della morte”.

Nei giorni difficili e in quelli più facili, nella gioia e nel dolore, ho imparato ad accogliere i promemoria della mortalità come dei doni, doni singolari ma buoni. Essi hanno la capacità di ricongiungermi alla mia condizione di mortale davanti a Dio. Viviamo nella speranza che la fragilità e il decadimento del nostro corpo non siano la misura ultima della nostra esistenza. Viviamo nella speranza che il dramma che va in scena al centro dell'universo non sia la storia della nostra vita. Se invece viviamo come piccole creature, sapremo gioire della meraviglia e della drammaticità dell'amore di Dio in Cristo.

La nostra vita presente finirà quando, come Giobbe, nella nostra condizione di creature saremo privati della famiglia, della ricchezza e del futuro terreno. Ma anche alla luce di questa fine mortale, anzi soprattutto alla luce di essa, possiamo unirci all'apostolo Paolo nel dichiarare “che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura potranno separarci dall'amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8,38-39)

J. Todd Billings è professore di teologia riformata, titolare della cattedra di ricerca Gordon H. Girod presso il Western Theological Seminary di Holland (Michigan), negli Stati Uniti. Il testo di questo articolo riprende e adatta parte dei contenuti del suo ultimo libro, The End of the Christian Life: How Embracing Our Mortality Frees Us to Truly Live (La fine della vita cristiana: perché accogliere la nostra mortalità ci rende liberi per vivere davvero).

Le citazioni bibliche, salvo diversa indicazione, sono tratte da La Sacra Bibbia, Nuova Riveduta, Società Biblica di Ginevra, Ginevra 2006.

Articolo originale inglese pubblicato su Christianity Today

Traduzione usata con permesso.

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